03 Feb 1974
Esiste una piccola fetta dell'ambiente musicale inglese in cui folk e jazz trovano un punto d'incontro. I cantautori tradizionali ed i discepoli del bebop e del free vanno a braccetto, le chitarre acustiche e i mandolini intrecciano i foro timbri con i sassofoni e i contrabbassi swinganti.
Forse perché si muovono nelle stesse aree dei piccoli clubs, dei pubs di periferia, forse perché entrambi, nelle forme incontaminate dal pop, sono rimasti a lungo parenti poveri del rock, e dunque quasi per spirituale solidarietà, folk e jazz hanno partorito, incredibile a dirsi, figli comuni: ed hanno seguito una analoga ascesa verso il maggiore interessamento del grande pubblico. L'esempio più limpido e più significativo, in questo senso, sono stati i Pentangle.
Per altro la scena dei cantautori inglesi è estremamente varia: per certi versi sono cantautori anche rock star come David Bowie o Elton John, per altri solo i folksingers meritano questo appellativo. Ma che significato poi dare alla parola «folksinger»?
L'unica cosa certa è che in Gran Bretagna, più che in altri paesi, esistono migliaia di ragazzi che scrivono e cantano le loro canzoni ispirandosi alla tradizione, rinnovandola con i linguaggi moderni del rock'n'roll, o cercando di riprodurre fedelmente l'epoca leggendaria dei «raconteur, troubadour», per dirla con i Gentle Giant. E c'è chi sta vivendo questa riscoperta in maniera del tutto personale, traendo spunti e linfa dal jazz.
È il caso di John Martyn, di cui ci occupiamo oggi, ma anche di Nick Drake, di Roy Harper, di Kevin Coyne e di molti altri.
Questa scuola non ha precisi antenati: di Martyn si potrebbe dire che ha qualcosa di Donovan e qualcosa di Cat Stevens, che l'elemento latineggiante (bossanova) ha influito su di lui in maniera vistosa, che Harold McNair e Danny Thompson sono stati i jazzmen a lui più vicini. John Martyn, ventisei anni, proveniente da Glasgow, Scozia, sette dischi per la Island, di cui due in coppia con la moglie Beverley, ha cominciato a suonare la chitarra in età relativamente tarda, a diciannove anni. Le biografie dicono che progredì in maniere rapidissima: sta di fatto che pochi mesi dopo (1968) ha già inciso il suo primo LP, «London Conversation».
Le sue prime influenze sono naturalmente il revival del folklore nazionale, Archie Fisher i canti scozzesi ed Irlandesi della tradizione, dall'America il blues e, mito imprescindibile per chiunque negli anni Sessanta prenda in mano una chitarra acustica, Bob Dylan. Nasce artisticamente, insomma, cosi come erano nati prima di lui Bert Jansch e Robin Williamson, I leaders dei Pentangle e della Incredible String Band, due musicisti che hanno fatto scuola di stile e di tecnica.
Anche John sarà a suo modo un innovatore. Per il momento è un ragazzotto scozzese ricciuto e grassottello, timido e spaurito, cui il boss della Island, Chris Blackwell, è particolarmente interessato. Da solo con la sua chitarra Rolif, semplice, poetico, con il fruscio delle dita slittanti sulle corde e la voce che deve ancora affinarsi: dodici brevi episodi, dodici gioielli dalla struttura ben definita tra i quali non poteva mancare l'omaggio a Dylan, «Don't Think Twice», talmente assimilato che potrebbe appartenere al suo repertorio, e che misura esattamente la differenza stilistica che corre tra i due: tanto tagliente, tutto secchezze e pronunce mozze l'americano, quanto dolce, armonioso nella sua estensione vocale lo scozzese.
In «London Conversation» il Martyn c'è quasi tutto: col suo intimismo, il pacato misticismo, il suo mondo a cavallo tra country americano e tradizione europea, la voce usate senza sforzo o particolari tecniche come un secondo strumento, Tim Buckley e Shawn Phillips all'orizzonte.
Tra i camini della metropoli si spengono gli echi della conversazione londinese, e giunge l'acrobata, «The Tumbler», con un bassista (Dave Moses), un secondo chitarrista (Paul Wheeler), ligio a una formula che Martyn poi avrebbe a lungo sperimentato dal vivo, e soprattutto con il flauto di Harold McNair.
McNair, jazzista di classe scomparso due anni or sono, collaborò anche con Donovan, precisando certi contatti fra i due cantautori scozzesi. Ancor oggi John cita Harold come l'uomo che lo introdusse al jazz. - C'è una canzone in quell'album, «The Gardeners» -ricorda- che ascolto tuttora e mi sorprende. Non penso di avere raggiunto più la stessa scioltezza.
Più autoritario e maturo -ascoltate i suoi giuochi di voce-, forte dell'accompagnamento che gli consente une diversa impostazione, Martyn definisce il suo discorso: «musica per il cuore, non per la mente», «l'obiettivo della mia musica è di far tornare la gente a pensare che il cuore», «la musica non si giudica dalle scenografie imponenti o dal volumi alti».
Il Cat Stevens di «Mona Bone Jakon» è alle porte, e qualche parallelo è possibile tenendo presente queste dichiarazioni: ma in senso generale Martin appare più tranquillo, meno inquieto di Cat, ispirato da un senso ancor più profondo di serenità e di fiducia nei valori della vita.
In «The Tumbler», il blues ed il country americano lo coinvolgono sempre di più: le sonorità eteree di McNair creano climi orientaleggianti per la sua voce e la sua chitarra. C'è il germe di soluzioni più importanti, sicuramente nuove, di formule meno rigide ed accademiche.
L'America rimane il suo mito, la sua leggenda. È in America che registra nel '69 il suo terzo album, luna di miele con Beverley e sessioni in studio con grandi nomi, Harvey Brooks che era stato bassista di Dylan (con Kooper e Bloomfield) e degli Electric Flag, Levon Helm della Band, Billy Mundi ex Mothers of Invention ed ex Rhinoceros (notare l'introduzione della batteria nell’organico), John Simon pianista country e Paul Harris, arrangiatore.
«Stormbringer!» è il più americano dei dischi di Martyn. La presenza di simili accompagnatori, il clima di Woodstock, cui viene dedicato anche un brano, un blues sano e tranquillo, sorreggono le sue composizioni; mentre quelle di Beverley (quattro su dieci) preludono, forse per una sorta di influenza reciproca, alle elaborazioni più lunghe e sviscerate del successivo Martyn, anche se un tantino noiose. La conclusiva «Would You Believe Me» è forse la cosa più vicina al successivo repertorio del cantautore.
È questo il periodo di grande serenità coniugale di Martyn, il momento in cui nasce la sua famiglia. Ma Beverley, che prima di incontrarlo cantava in una jug band, non ha soltanto il merito di regalargli due figli (- le cose più importanti per me -dirà più tardi- sono il sorriso dei miei bambini e l'amore della mia donna -), ma anche quello di accrescere in lui l'amore per il jazz.
Nel seguente «Road To Ruin» ancora Paul Harris al piano e numerosi personaggi del jazz inglese vengono coinvolti: gli africani Dudu Pukwana e Rocky Dzidzornu, Ray Warleigh, Danny Thompson, Dave Pegg. Thompson, che nei Pentangle è stato l'elemento più spiccatamente influenzato dal jazz, sarà in particolare, da questo momento, la fedele spalla di Martyn: sempre presente in studio e, permettendolo gli altri impegni, anche nei concerti dal vivo.
Di lui Martyn ha detto: - Danny è un uomo ed un musicista ispirato. Comprende sempre al volo quello sto facendo con la musica o con i tasti. È il miglior bassista del mondo -.
L'aggiunta del sax imprime una timbrica più aggressiva, e dà nuovo tono alla musica di Martyn; cosi in «Primrose Hill», che rammenta vagamente i Traffic, cosi in «Say What You Can» e «Road To Ruin». Ma nel complesso il disco è più scomposto, più distratto e vago del precedente, certamente non il migliore.
Beverley canta pressappoco come il marito: la coesione artistica fra i due è davvero totale (infatti ora compongono preferibilmente in coppia), ma forse la donna è rimasta indietro rispetto a taluni progressi: sta di fatto che dopo «Road To Ruin», John torna da solo.
Con «Bless The Weather» nell'estate '71, Martyn ritrova la sua intimità. È il primo dei tre dischi che recano il volto definitivo (per il momento) dell'artista. L'inconfondibile stile vocale, l'andatura sussurrata, quasi strascicata della voce, che ricorda certi interpreti di ritmi sudamericani; e la particolare tecnica chitarristica, discontinua nei timbri o nei volumi, essenzialmente da ritmica, cui risponde in maniera sempre più esemplare il basso acustico di Thompson; e i brani tipici, originali per i quali sono ormai superati tutti i paragoni, le discendenze genealogiche, i tentativi di imitazione ed i timori reverenziali; infine l'atmosfera mistica, raccolta, crepuscolare, con non trascurabili episodi completamente strumentali, quasi improvvisati.
Sono parecchi anche in questo 33 gli ospiti d'onore. Ricordo Richard Thompson, l'ex Colosseum Tony Reeves, e Beverley.
Qualche parvenza di country è rimasta nella spigliata e spiritosa «Sugar Lump», mentre i vertici della raccolta sono costituiti da «Go Easy», «Just Now», «Head And Heart», «Glistening Glyndebourne». Sorprende in chiusura una breve versione di «Singing In The Rain», la stessa divenuta tema famoso della colonna sonora di «Arancia Meccanica».
Gli ultimi due LP di Martyn, in ordine cronologico «Solid Air» e «Inside Out», sono programmaticamente più «free» dei precedenti, nel senso che le strutture sono preordinate in misura minore, c'è più spazio per gli strumenti e per l'improvvisazione: in altri termini ci si sta allontanando progressivamente dalla concezione di musica formale e compiuta che aveva accompagnato gli inizi dell'autore.
A questa lenta ma progressiva trasformazione collaborano un po' tutti, a cominciare naturalmente da Danny Thompson.
In «Solid Air», che esce agli inizi del '73, c'è la crema del folk inglese, alcuni ex Fairport Convention, ex Albion Country, ed un'inusitata ricchezza timbrica: piano elettrico, clarinetto, vibrafono. mandolino, autoharp, ecc., sempre sotto la guida tecnica di John Wood, eccellente engineer di Martyn.
Nello stesso periodo la casa discografica dell'artista intensifica la campagna promozionale a suo favore, e Martyn viene incluso quale supporto alla tournée americana dei Traffic, guadagnandosi cosi una certa popolarità anche al di fuori della patria.
«Solid Air» è l'album più originale e maturo di John, il più tipicizzante. Tutta la musica si muove in un clima soffuso, ricco di sfumature e di vibrazioni. Un clima ovviamente non facile, talora anche sgradevole al primo ascolto: Martyn è in un certo senso un cantautore «cerebrale». Basta ascoltare «Solid Air» o «Go Down Easy» o «The Man In The Station» o «I'd Rather Be The Devil» (che è di Skip James), per rendersi conto della capacità innovatrice di Martyn nel novero dei cantautori, forse non meno di Tim Buckley e Shawn Phillips.
«Inside Out» è dell'autunno dello scorso anno: ancore un disco eccellente, che conferma i caratteri del protagonista, anche se con un impatto minore di freschezza. Martyn sembra ancor più chiuso in se stesso, come un riccio, la voce sembra quasi faccia fatica ad uscire, e se bisogna paragonarla ad uno strumento, allora ecco l'immagine del basso acustico: forse Danny Thompson lo ha affascinato al punto di farsi imitare con la voce.
Qualche leggiadria pianistica di Stevie Winwood, dei ricami fiatistici di Chris Wood e Bobby Keyes si distinguono nel gruppo degli esecutori, gente sempre esperta ed affermata. «Fine Lines», la lunga jam di «Outside In». «Beverley», dedicato alla moglie, «Ways To Cry» e «So Much In Love With You» le cose più tipiche, ma altrettanto notevole il country blues divertente di «The Glory Of Love», ed il traditional «Eibhli Ghail Chiuin Ni Chearbhaill», condotto sul modello di «Amazing Grace» da una chitarra distorta che ricorda qualcosa tra il sitar e la cornamusa.
Ora la stampa inglese comincia ad accorgersi di lui, ma Martyn attende ancora una giusta valutazione nell'ambito della scena britannica.
Enzo Caffarelli