04 Dec 1998
John Martyn
Un mito del folk rock
POCHI sanno che John Martyn (in concerto con la sua band al Folk Club, via Perrone 3 bis, sabato 5 alle 21:30, info 011/537.636) è un nome d'arte e che questo signore scozzese ormai cinquantenne si chiama all'anagrafe Iain McGeachy. In realtà il problema è «più a monte». Pochi sanno chi è John 'Martyn «tout court», perché non bastano trent'anni di onorata carriera e la stima della critica per fare una celebrità. Al massimo nasce un «culto», ed è giusto il caso. John Martyn è un venerato minore, un grande outsider, come il suo amico e coetaneo Richard Thompson e altri britannici di gusto raffinato che vedono da lontano le classifiche e quasi mai la Tv ma sono il sale di quella scena. Chi non li conosce, in due parole, si perde qualcosa.
Martyn cominciò un milione d'anni fa, l'estate del «Sgt. Pepper», evitando psichedelia e suoni alla moda per un suo folk già da subito originale, che prendeva un po' da Dylan, un po' da Donovan e qualcosa dai revivalisti del suo Paese. Suonava ballate dolci con la chitarra e si accompagnava a piccole formazioni acustiche dal suo suono discreto. Per un periodo duettò con la moglie, Beverley Kutner, ma presto tornò solo e guadagnò un buon credito nel mondo del folk rock britannico. C'erano dei nomi che sbocciavano in quel campo, non solo il Thompson che ricordavamo prima. Cat Stevens sbancava le classifiche con i suoi modi gentili e Nick Drake, il Nick Drake di cui tanto si parla in questi giorni, intesseva le sue malinconie un oscuro angolo della scena. Martyn lo conosceva, ne era amico oltre che compagno di etichetta alla Island.
Via via negli anni il folk originale stemperò in qualcosa di più complesso e affascinante, una canzone moderna in cui lampeggiavano tracce di blues, di jazz, con arrangiamenti sempre più sofisticati. Vennero apparizioni in classifica, una specie di piccola fama; prima però l'uomo dovette combattere, e vincere, un alcolismo che stava per farne uno dei tanti martiri della scena rock. Gli Anni 80 furono forse il periodo più felice. Cominciarono con un fortunato disco dedicato con sarcasmo a Ronald Reagan (era lui il «Glorious Fool», «lo scemo glorioso» del titolo) e proseguirono con album altrettanto venduti come «Well Kept Secret» o «Piece By Piece», in cui compare una delle sue canzoni più belle e celebri, «Angeline». La musica era diventata un elegante tappeto elettro-acustico, originale variazione al tema «soul folk» di Van Morrison: e a Martyn era cresciuta una voce più calda e piacevolmente amara, come nel gusto di certi grandi vini rossi di lungo invecchiamento.
Quell'idea di canzone è rimasta fino a oggi, ai cinquant'anni vissuti con molta serenità: un disco ogni due-tre anni, una regolare attività dal vivo, l'affetto dei fans. John Martyn suona la versione «deluxe» di quello che un Chris Rea banalizza nelle classifiche di mezza Europa: o, a voler essere più maliziosi, riesce in quello che Eric Clapton balbetta in molti suoi dischi fuori dal blues. A proposito di Clapton. Prendete un suo vecchio ellepi famoso, «Slowhand», e selezionate la track numero 7, «May You Never». E' una delle più belle canzoni di John Martyn, rende l'idea.
Riccardo Bertoncelli
sitenote: This story was published Friday 4 December 1998, one day before the concert in the Torino Folk Club. La Stampa really made an effort to promote John this time around. They announced him twice in two consecutive days, both times with a promo picture.